Softwall, di Shua Group / Sylvestre Gobart.

Un nuovo rapporto tra pubblico e scena

di elisa frasson

Già durante l’ingresso nello spazio della performance Soft Wall di Shoua Group e dell’artista Sylvestre Gobart, nei locali dell’ex-Istituto Edison di Marghera, attualmente gestita da un gruppo di associazioni di volontari, il pubblico ha la percezione di essere in uno spazio condiviso, dove l’arrivo e l’accoglienza degli spettatori non è riconducibile solo a un gesto formale, descrittivo e didascalico, ma a un momento di incontro e di reale benvenuto.

Costruito attraverso il rapporto tra creazione scenica e uno spazio che appartiene ad un presente abbandonato, Soft Wall innesca un meccanismo dove il pubblico diventa parte attiva partecipando non solo empaticamente ma anche fisicamente al processo performativo. L’obiettivo non è solo di abitare uno spazio non teatrale e renderlo performativo, ma far sì che danzatori e pubblico vivano e si scoprano gradualmente partecipi di una vibrazione comune, dove c’è una vicendevole e quantomeno necessaria coabitazione di uno stesso territorio. Il pubblico quindi non ha solo la sensazione di aver preso parte a una site specific performance, ma di essere entrato in conversazione e in relazione, tramite le azione performative dei danzatori, con la storia di quello spazio. Grazie a questo dialogo, i partecipanti diventano parte di una condizione psico-fisica che altera la storia del luogo, per portarci in una situazione universale e farci leggere la contemporaneità attraverso uno sguardo oltre il tempo. Come una premonizione Soft Wall, un lavoro del 2005, non può non farci pensare alla condizione politica attuale, con il nostro presente popolato dalla costruzione di muri, invitandoci a riflettere sulla nostra condizione di creatori e allo stesso tempo possibili e unici distruttori di queste barriere.

Nell’abbattimento della parete, l’esperienza e la presenza dello spettatore, intima e privata, diventa un rituale collettivo, senza regole precise ma con un obiettivo chiaro: potere vedere oltre, con uno sguardo nuovo e, forse, in una stessa direzione.

I danzatori abitano questo luogo in maniera organica, con una precisa chiarezza di intenti rendendo ogni movimento e azione necessari alla drammaturgia scenica. Sono vestiti di bianco, come le pareti che poi distruggeranno, ma a differenza del duro muro il loro materiale è morbida spugna; i loro vestiti si relazionano visivamente con le grandi superficie murarie bianche che li circondano, ma allo stesso tempo i loro corpi contrastano attraverso l’energia dei loro movimenti con la solidità della parete materica. Danzano senza musica, accompagnati solamente dal rumore che loro stessi (e a volte anche il pubblico), creano nel luogo, riportando a galla la memoria di voci e suoni passati di questa ex-scuola.

Le sensazioni fisiche che questa one-night only performance lascia sono molteplici: da una sensazione iniziale di claustrofobia, a un rituale di distruzione liberatoria e di scatenamento collettivo nella parte finale. Al pubblico viene richiesta la responsabilità di prendere parte non solo mentalmente ma anche fisicamente, e le sue azioni sono state non solo auspicabili ma necessarie per la continuazione della performance. Quasi a ricordare i lavori del coreografo belga Vandekeybus, i danzatori hanno informato con la loro energia fisica lo spazio del luogo, aprendo delle grandi questioni su cosa significhi oggi giorno abitare, invadere e smuovere.

Elisa Frasson
(Post-Graduate Researcher presso Roadhampton University, Londra, UK)