"Il performer è il canale attraverso cui tutto passa”
Carla Marazzato
Marzo 2020: inizio del “primo lockdown”. Tutto si arresta improvvisamente, senza preavviso. L’Italia chiude per un arco temporale indefinito. Nessuno comprende cosa stia succedendo e per quanto si protrarrà tutto questo. Come reagire?
Da queste premesse, Laura Boato (Nota 1) – coreografa, formatrice e performer – si interroga sulle vie percorribili per continuare le sue lezioni di danza, pratica corporea basata principalmente sulla relazione. L’alternativa più diffusa è la pratica virtuale, nonché unico mezzo a disposizione che possa mettere in contatto persone fisicamente distanti.
Tuttavia, per Laura non sembra un’opzione praticabile, in quanto sostiene che per le arti performative in generale, e per la danza in particolare il discorso sia più complesso e delicato; nel suo lavoro inoltre le relazioni orizzontali tra pari sono fondamentali, aspetto che rischia di perdersi nella trasmissione online.
Indubbiamente, il virtuale presenta aspetti positivi come la possibilità di ricongiungimento tra individui lontani; tuttavia, si fatica ad instaurare un legame autentico tra loro. In questo contesto la coreografa ha avvertito un senso di responsabilità nei confronti dei suoi allievi, in quanto mediatrice che permetteva loro di creare connessioni.
In un primo momento, si affida ai laboratori del grande maestro di danza contemporanea Steve Paxton: traducendo le sue lezioni e riportandole su delle tavole, prova dapprima a stabilire un contatto telematico con i suoi studenti.
Intorno alla metà di aprile, dopo circa un mese e mezzo di lockdown, Boato si rende conto che “qualcosa stava accadendo ai nostri corpi” (Nota 2) e decide di provare a registrarlo attraverso un progetto di ricerca.
L’inizio del viaggio
Propone ai suoi studenti di partecipare alla ricerca che si avvia attraverso un gioco di scrittura automatica, un metodo che aveva impiegato già altre volte nelle composizioni coreografiche, soprattutto in quelle che coinvolgevano performer non professionisti, e che mira a “raccogliere immagini”. Rispondono 65 persone.
Il progetto coinvolge perciò un gruppo molto eterogeneo di individui che vanno da dagli 8 ai 74 anni, con professioni diverse; una sorta di “Italia in miniatura”, come lei stessa la definisce.
Ciò che accomuna queste persone è l’aver partecipato a laboratori di danza e di movimento, oltre allo scenario surreale che fa da sfondo alle loro vite. Il lavoro segue lo stesso percorso di quello utilizzato per la costruzione di uno spettacolo, ovvero parte con delle domande sullo spazio interno ed esterno, sul tempo, sui ritmi, sulle intenzioni, sullo stato interno.
Il “gioco” si articola in dieci consegne a cadenza settimanale; i partecipanti hanno a disposizione quattro giorni per rispondere; in seguito, le risposte arrivano alla coreografa che le riordina creando un unico testo finale in cui le diverse voci compongono una sorta di mosaico.
Si rispetta fedelmente l’autenticità di ogni espressione: i testi restano inalterati, ivi comprese sviste grammaticali o di battitura/punteggiatura/impaginazione, senza modifiche, nonché unici.
Un altro aspetto significativo è l’assenza di firme, calligrafia o qualsiasi segno riconoscibile che possa essere ricondotto alla persona; in questo modo, ognuno è libero di far emergere la sfera intima “che normalmente non passa attraverso le parole ma che in questo caso non aveva altra strada se voleva farsi sentire”, ricorda Boato. Inoltre, è stato un continuo “leggersi gli uni con gli altri”, in un’ottica di condivisione ed empatia; questo modus operandi ha creato un forte senso di comunità perché si ci si apriva agli altri, mostrandosi nelle proprie fragilità, senza il timore di sentirsi giudicati. “In qualche modo il coraggio di ciascuno di provare a lasciarsi guardare in quel momento liberava tutti.”
Le prime due consegne sono “In questo tempo ho scoperto che” e “Fatico a”. Già scorrendo le prime pagine si avverte un senso di malinconia, un fardello di pensieri e sensazioni di cui ognuno deve farsi carico.
Seguono le altre consegne: “Lontano da”, “Vicino a”, “Tempo per”, “Non vedo l’ora di”, “Paura di”, “Non rinuncio a”.
Man mano il lavoro permette di andare sempre più a fondo nell’interiorità dei soggetti. Ad esempio, “Paura di” - ricorda Boato – “è stata la più difficile da attraversare… sembrava una galleria degli orrori”, in quanto sono emerse le peggiori paure di ciascuno, condensate in questi pensieri messi nero su bianco: dalla paura della morte, a quella della solitudine, dell’abbandono, dell’inganno, della violenza, della privazione della sopraffazione.
Da queste testimonianze emerge la consapevolezza che non ci sia stato un unico lockdown:
Si dice spesso “il lockdown…” e tutti diamo per certo di sapere, di conoscere bene ciò a cui ci si sta riferendo: perché è innegabile che quell’esperienza sua profondamente radicata in noi. Eppure, io credo che non esista, il lockdown: ciò che è stato davvero, sono oltre sessanta milioni di lockdown, ciascuno molto diverso dagli altri. Qui (nel libro, ndr) se ne trovano registrati sessantacinque. Sono uno spaccato, nonostante tutto piccolo e parziale. Ma sono anche la testimonianza che siamo tanti e diversi e che siamo capaci, se lo vogliamo, di provare a raccontare. Ad ascoltare. A comprendere. Ad accoglierci e darci spazio, nelle differenze. Quando succede, essere d’accordo non è più così importante: perché, a prescindere, siamo e restiamo insieme. E se ciascuno trova il coraggio di dare voce al proprio sentire e riflettere, accade che sia possibile passare dal frastuono più dissonante al comporre un’ode collettiva: ode a cosa non saprei spiegare, ma di certo canta. (Nota 3)
Per questo motivo, Boato ha voluto dar voce ad ognuno dei suoi sessantacinque studenti, per raccogliere sessantacinque esperienze diverse di lockdown, ognuna con le sue peculiarità.
Il compito più arduo per la coreografa consiste nel riordinare tutto il materiale e sistemarlo come se fosse una coreografia, scegliendo l’ordine di entrata e uscita dei vari “performer”, dando una forma e un ritmo ai vari frammenti di pensieri.
L’obiettivo successivo è stato quello di provare a tradurre il tutto in una performance.
Tuttavia, Laura si accorge di un aspetto fondamentale, ovvero “ogni linguaggio ha il suo specifico e non puoi chiedere alla danza di tradurre in movimento qualunque cosa; a volte la danza riesce a tradurre uno stato d’animo meglio della parola, a volte invece è impossibile chiederle di restituire il senso e il dettaglio di un’espressione che nasce come verbale”. Si riscontra una difficoltà nel tradurre questi pensieri in movimento, seguita dalla complessità di condensare un percorso così corposo in una performance di breve durata.
La soluzione finale è quella di raccontare il lockdown con una performance, partendo proprio dal gioco di scrittura automatica; in seguito, raccogliere il prezioso materiale in un libro che possa testimoniare questa esperienza, una sorta di diario collettivo, dove è raccolto il vissuto dei protagonisti.
La performance: INBOX_IT2020
La volontà di provare a tradurre il tutto in coreografia deriva dalla voglia dei suoi allievi di incontrarsi, di conoscersi, dopo essersi “letti” reciprocamente ma, soprattutto, dal voler inscenare l’evento traumatico del lockdown.
Tuttavia, organizzare una performance in presenza con un palcoscenico e una platea non era così facile, in un momento caratterizzato da prime riaperture, tante restrizioni e distanziamento sociale.
Pertanto, il luogo a cui la performer si ispira è la scatola, con un debito d’immagine verso la coreografa Silvia Bugno. (Nota 4)
Chiudersi dentro una scatola risulta essere l’unica soluzione sia a livello pratico che burocratico per potersi esibire in luoghi esterni.
INBOX_IT2020 comincia con delle scatole aperte posizionate sulla piazza a formare delle strade.
C’è una sensazione di frastuono e caos tipico di una città trafficata, in cui capita di incontrarsi e scontrarsi; c’è un sottofondo musicale che incrocia suoni e voci differenti. (Nota 5)
All’improvviso a bloccare questa atmosfera caotica è il suono prolungato di uno strumento, che rimanda al suono di una sirena. Tutti cominciano ad arretrare e si posizionano nel proprio spazio privato, provvedendo individualmente alla costruzione della propria casa.
Pian piano lo spazio si svuota e le case si riempiono.
I performer sono tutti rinchiusi nelle proprie “abitazioni” e aleggia un’atmosfera surreale scandita da un silenzio tombale, lo stesso del lockdown.
A contrastare questo silenzio sono i suoni provenienti da ciascuna casa, al cui interno ogni performer possiede un telefono con una traccia audio. Da qui deriva l’idea di chiedere ad ognuno di associare una canzone o un suono alla propria quarantena. In seguito, a seconda dei suoni e dei brani proposti, Boato costruisce delle tracce audio diverse per ciascuno, seppure cadenzate con gli stessi intervalli di suono e di silenzio, in modo tale che i performer avessero gli stessi riferimenti interni per potersi muovere insieme senza vedersi.
A poco a poco i corpi intrappolati cercano di ri-occupare lo spazio negato.
All’inizio sbucano solo occhi e mani incerti, come a voler sondare il terreno; poi qualche volto; infine, dalle porte e dalle finestre escono braccia e gambe, e i corpi sembrano davvero intrappolati nelle case.
Sul finire della performance le case cominciano lentamente a ri-aprirsi, mentre lo spazio esterno si riempie del suono di uccellini che cantano.
Sorge spontaneo chiedersi, da spettatore, quale reazione abbiano provato quei poveri corpi, rinchiusi per un bel po’ al buio e in quello spazio ridotto.
Ed ecco che i corpi si riappropriano finalmente del proprio spazio: “i corpi respirano davvero, come se fossero ritornati a quel desiderio di ossigeno, alcuni distesi, altri guadano il cielo”. I corpi posso ri-abitare lo spazio esterno e tornare ad essere liberi.
A questo punto, i performer ricostruiscono le casette dall’esterno e le posizionano al centro formando un villaggio. Si passa da una logica di città e strade asettica, ad un piccolo borgo, nato dall’unione e dalla volontà di cooperazione dei suoi abitanti, una vera e propria comunità, un sentire collettivo.
La performance si conclude con la canzone “La libertà” di Giorgio Gaber intonata da una solista a cui si accodano le voci dei performer, che sussurrano all’unisono. La performance ha luogo in piazza Caduti a Mogliano (giugno 2020) e, successivamente, al festival delle arti di Venezia settembre (2020).
Per quanto concerne il legame performer-pubblico, nelle due esibizioni si notano delle differenze.
Ad esempio, durante la prima performance nessuno spettatore si è avventurato tra le case di cartone; l’impatto visivo è stato molto forte, considerato il numero dei performer (una sessantina). Nella seconda, invece, allestita dopo l’estate, c’è stata più interazione, forse grazie al fatto che lo spazio era più contenuto e meno dispersivo e c’era un numero ridotto di performer; questo ha forse favorito l’instaurarsi di un legame.
In entrambi i casi, l’empatia dello spettatore ha suscitato un’intensa reazione emotiva nel momento in cui i corpi sono rimasti intrappolati.
Quella sensazione l’abbiamo provata tutti, in fondo. La conclusione apparentemente felice della performance lascia lo spettatore in una situazione di ambiguità. Quei corpi torneranno un giorno ad essere davvero liberi? Potranno ritornare ad una situazione di “normalità”, com’era prima della pandemia?
Il contesto è incerto come questo finale. Tuttavia, il pubblico − così come anche i performer − continua a domandarsi che ne sarà dei nostri corpi, delle nostre vite.
Durante l’intervista emerge un aspetto importante, ovvero l’assenza di una rielaborazione socialmente condivisa di quanto è accaduto: "A mio avviso è mancata e manca tutt’ora un’elaborazione di quello che è successo… forse perché abbiamo tutti il desiderio che finisca e nessuno ha voglia di guardare indietro; il rischio è però che quel trauma resti, come qualcosa che nessuno ha avuto lo spazio e il tempo di processare, una sorta di taboo. Se anche non ne siamo consapevoli, ciascuno di noi oggi è anche il risultato di come ha vissuto ciò che è accaduto; sarebbe importante darci un tempo per rielaborare, per capire e capirci. "
Perché, in fondo, “qualcosa è davvero accaduta ai nostri corpi”.
Conseguenze del lockdown
Durante l’intervista si è discusso delle conseguenze del lockdown e dei possibili scenari futuri. Si parte dal constatare che il contesto attuale è sicuramente differente rispetto al “primo lockdown”.
Tuttavia, sembra persistere secondo Boato “una pressione indebita di tutto il mondo del digitale, che di fatto ha impattato sulle scelte politiche e di gestione di questa pandemia. Scelte che poi si sono rivelate strategiche.”
Sembra emergere ad esempio il tentativo di trasformare l’abitudine di andare a teatro nella fruizione dell’arte performativa e degli eventi culturali online non solo nei primi momenti del lockdown, ma anche in seguito, con la pretesa che le due cose siano equivalenti.
Come già ribadito precedentemente, secondo Boato per il settore delle arti performative non si può fare ricorso al virtuale tout-court perché questo porta a “[…] disunire le persone. L’arte è farsi delle domande, incontrarsi fra diversi, mettere in moto energie differenti, capire cosa c’è dall’altra parte.”
Tuttavia, ci sono state delle alternative possibili, nonostante le circostanze.
La coreografa, infatti, propone di considerare l’insieme dei vincoli logistici e organizzativi imposti dal contesto non come limitazioni ma come il punto di partenza per ricercare delle soluzioni. Un obiettivo ad esempio può essere quello di trovare il modo di mettere in relazione le persone rispettando il distanziamento.
Da alcuni di questi limiti sono scaturite numerose idee, tra cui quella della scatola utilizzata nella performance INBOX_IT2020.
Un’altra iniziativa interessante curata da Laura Boato è “A PIEDE LIBERO - incursioni urbane nei luoghi dell'attesa”, un festival di danza urbana che prevede azioni performative all’esterno, ma anche video, masterclass, laboratori e incontri nella città di Mogliano.
Per quanto riguarda gli scenari futuri, l’intervista si è conclusa con un finale aperto ed incerto. Quale sarà il nostro scenario futuro?