Del tuo essere ovunque cresciuta - L’acqua è una sola: un titolo che è quasi un tributo, e una riflessione, tra testimonianza e autobiografia, per il nuovo spettacolo di Laura Boato in scena martedì 26 marzo alle 19 al Centro Candiani di Mestre (Ve). Le ovunque cresciute sono le donne migranti incontrate dall’autrice nel nostro paese: donne che, spiega Boato, si sono raccontate a lei con grande generosità.
Coreografa e danzatrice contemporanea, con una formazione passata anche attraverso danza moderna e classica, la veneziana Laura Boato ha studiato per sei mesi alla scuola di Pina Bausch (“Avevo 25 anni, e chiesi se non fossi già troppo vecchia per danzare: Malou Airudo ride, e mi portò con sé”). Un periodo in Francia e poi “la mia vera formazione”, quella negli Stati Uniti: partita molto scoraggiata, a New York scopre Release Technique e Contact Improvisation, che sfruttano la dinamica del peso del corpo e il suo cadere nello spazio per produrre dinamica, e non la tonicità del muscolo come nella danza tradizionale: “Il muscolo resta morbido, più naturale. È stato, per i miei muscoli, come ritrovare l’ossigeno dopo anni di miniera. E scoprire che se cadi non muori è un’insegnamento prezioso, e un’enorme apertura creativa”.
Nel 2003 torna in Italia e partecipa al GdA 2010, alla Biennale (Choreographic Collision), e vince a Rovereto Danz’è 2012, il concorso coreografico del Festival Oriente Occidente.
D. Del tuo essere ovunque cresciuta - L’acqua è una sola mette in rapporto l’esperienza della migrazione con il concetto di identità. Che tipo di percorso artistico ti ha portata a lavorare su questi temi?
R. Sono temi che ho incontrato spesso nel mio percorso, fin dall’inizio: mi sono laureata in filosofia con una tesi sull’identità intesa come “essere con l’altro”. L’argomento migranti è poi tornato periodicamente: in un primo lavoro, intitolato Migranti - Chi si ferma è perduto; poi in un secondo pezzo, sui diritti umani; poi in Vive - donne tra le guerre. Questa volta, però, ho utilizzato un metodo drammaturgico diverso, perché per costruire lo spettacolo ho potuto intervistare alcune delle donne straniere che partecipavano ai corsi di lingua italiana organizzati dal Centro Donna del Comune di Venezia e dalla Cooperativa Novamedia. Ho incontrato donne provenienti da dodici paesi e da quattro continenti.
D. Come hai condotto la ricerca?
R. Ho chiesto loro (ma anche alle mediatrici culturali, italiane) di parlarmi dei loro affetti. Siamo andate gradualmente verso cose sempre più intime: hanno risposto con grande generosità alle mie domande, regalandomi testimonianze preziose e questo, nella messa in scena, ha rappresentato per me una grande responsabilità. Avevo deciso di non danzare per un po’, di limitarmi a coreografare, perché lo stare fuori dalla scena mi dà una grande lucidità sul lavoro, e una giusta distanza; ma di fronte alla profondità delle loro testimonianze mi sono resa conto che in questo caso non avrei potuto affidarle semplicemente al corpo di un danzatore, magari giovane. C’era troppo vissuto in quei racconti. Ho sentito che non potevo che indossare in prima persona le loro parole, e ho chiamato Silvia Bugno, danzatrice straordinaria e anche lei, come me, madre, ad interpretarle con me. Serviva una maturità non solo tecnica o interpretativa, ma di vita.
D. Un altro elemento di costruzione drammaturgica è il suono.
R. Con Luca Ferro abbiamo fatto un grande lavoro, anche faticoso. Abbiamo raccolto voci, racconti e testimonianze, e Luca ha trovato poi musiche e sonorità. In questo modo ha ricostruito un vero e proprio paesaggio: per ogni quadro danzato, è come se il suono costituisse lo sfondo. In questo spettacolo il vero paesaggio è il suono.
D. Del tuo essere ovunque cresciuta è uno spettacolo declinato al femminile. Perché solo donne?
R. La creazione è nata per commissione del Centro Donna e di Novamedia: erano interessate a lavorare sul ‘femminile migrante’, a prescindere dall’essere straniero. Per me è stato facile, perché io stessa per buona parte della mia vita sono stata migrante. Mi sono chiesta se, in effetti, ci fosse una differenza tra donne e uomini nel loro vivere la loro condizione di migranti - ma leggendo sul web interviste a migranti uomini è saltato agli occhi come i temi che le accomunano sono il problema economico, il lavoro, gli alloggi, il trattamento ricevuto o le prospettive future. Invece le donne che ho intervistato mi hanno parlato della loro casa, delle loro madri, dei loro bambini, del cibo: le donne sono in costante relazione con il loro passato e con gli affetti, una relazione che poi, una volta emigrate, cercano di ricostruire nel loro nuovo presente. Io ero uguale: ho benedetto la danza, che mi permetteva di tessere una relazione anche senza le parole, quando ancora non conoscevo la lingua del paese che mi ospitava.
D. Tu e Silvia Bugno, dicevi prima, siete madri. Com’è entrato il concetto di maternità nella costruzione del lavoro?
R. La maternità è molto presente in questo spettacolo. Partiamo da una considerazione: tutte (o quasi) le straniere sono madri, ma non tutte le italiane lo sono. C’è una parte, in questo spettacolo, dedicate all’incapacità di dare e darsi un’età: ad esempio, parlando con una brasiliana o una russa mia coetanea - io ho 37 anni – ho scoperto che era già nonna. Ho intervistato una ragazzina alla quale davo sì e no 18 anni, che ha esordito con: “Sono venuta in Italia con mio marito”. Al contrario, spesso parlando con italiane che per come si muovono e parlano sembrano ragazze, scopri che hanno 35 o 40 anni. L’esperienza e i tempi sociali di vita hanno molto a che fare con te. Molte migranti sono giovani, ma si muovono come madri di famiglia. È come se la vita, la fatica, plasmasse il corpo, l’aspetto, la postura, in una parola – la persona. So che può sembrare un’ovvietà, ma acquista un’evidenza maggiore quando metti vicine donne dalle provenienze tanto diverse.
D. L’acqua è una sola è il sottotitolo dello spettacolo. Da cosa deriva?
R. Non avrei potuto raccontare le storie di quelle donne se non per quel tanto che avevo condiviso. Mi sono accorta che alcuni sentimenti di fondo, atavici, sono sempre uguali, per tutte: il modo in cui una donna canta una ninna nanna è uguale in cinese, in brasiliano, in veneziano, in sardo; il volume si abbassa, la voce si fa più dolce, il ritmo rallenta e si accorda col battito del cuore e col respiro. Così come identica è la sensazione di spaesamento, quando non padroneggi la lingua del paese d’arrivo. O ancora: i proverbi, di paese in paese, differiscono per le formule con le quali vengono espressi, ma dicono sempre la stessa cosa. Su questa comunanza mi sono concentrata: ho cercato il minimo comune denominatore, un tessuto sul quale ci si è trovate tutte vicine e che ha permesso di costruire fiducia e confidenza, così come accade con le vecchie amiche. Una confidenza fisica, addirittura, come da ragazzine: senza anticipare nulla, proprio da questo spunto è nato il finale dello spettacolo.
D. Il corpo che danza come racconta il rapporto tra migrazione e identità?
R. Ho cercato delle situazioni in cui il corpo fosse messo nella condizione di rivivere oggettivamente delle sensazioni, degli stati. Non si tratta di una ricostruzione emotiva della sensazione: se voglio esprimere fatica, non penso alla fatica, non cerco dentro di me la fatica, ma, direttamente, faccio fatica. Il passaggio consiste prima nel capire cosa voglio dire e poi nel creare un percorso perché il corpo del danzatore arrivi a dirmi quella cosa. Questo dà forza e comprensibilità al lavoro: Del tuo essere ovunque cresciuta non è uno spettacolo didascalico, ma credo sia molto fruibile anche da chi non è abituato a guardare, a leggere la danza.