Domanda: Cosa puoi dirci sull'esperienza di Choreographic Collision, soprattutto per quanto riguarda il lavoro sul testo?
Risposta: Durante il progetto di Choreographic Collision (prodotto dalla Biennale di Venezia in collaborazione con Danzavenezia) a noi coreografi è stato fornito, come primo strumento di lavoro, il testo di Brodskij Fondamenta degli Incurabili e, per i primi quindici giorni, forse addirittura le prime tre settimane, abbiamo fatto dalle tre alle quattro ore di drammaturgia al giorno. Il Prof. Stefano Tomassini, che ci guidava nell’esplorazione del testo, ha esordito chiedendoci qualcosa che per me si è rivelata preziosa – ci chiese di cercare in Brodskij la forma di ciò che avremmo voluto esprimere: di non cercare l’autore in noi ma, viceversa, andare noi verso di lui, capire chi era, le forme da lui usate, le parole scelte. È stato un esercizio molto utile, che ci ha permesso di trovare elementi nuovi, uscire dai cliché personali ed esplorare aspetti e prospettive nuove. (...) Così inteso il testo è diventato perciò una vera guida, anche molto precisa, in termini di contenuto e forma, spazio e tempo, ma insieme mi lasciava libera di produrre e seguire immagini anche molto lontane dal suo significato letterale.
D: Com'è stato invece il lavoro con gli interpreti?
R: I danzatori con cui abbiamo lavorato durante il laboratorio non li abbiamo scelti: ci sono stati assegnati, cinque ciascuno, già il primo giorno da Ismael Ivo, senza che neppure lui avesse avuto il tempo di conoscere bene noi o il nostro lavoro, poiché per la selezione avevamo dovuto presentare solo degli estratti video. Il gruppo assegnatomi era eterogeneo, i danzatori provenivano da percorsi di formazione molto diversi, e quindi all’inizio mi sono stupita di questa scelta; pensavo che forse sarebbe stato più agevole lavorare un po’ insieme prima, in modo da poter capire e scoprire reciproche affinità.
A posteriori, invece, ho capito che quella di Ismael era stata una decisione azzeccata, dettata oltre che da un grande intuito, anche dalla struttura del progetto, poiché se anche avessimo potuto scegliere i danzatori, non avremmo mai avuto effettivamente il tempo di portarli a danzare sulle nostre corde – cosa che richiede un enorme quantità di tempo e lavoro insieme.
È stato molto più interessante, anche come ricerca, il lavoro che in questo modo noi coreografi abbiamo dovuto fare: se sai fin dall’inizio quali sono i ballerini con cui dovrai lavorare, in tutte le lezioni, gli esercizi, anche non volendo, li guardi, li osservi, per imparare a conoscerli, a capire quali sono le loro qualità e l’indole di ciascuno. Quindi, quando poi cominci a partorire immagini e personaggi, sei tu che vai verso di loro, concentrandoti sui ‘colori’ che hai a disposizione e su come li puoi valorizzare, anziché pensare di cambiarli.
Non è stato facile, ho dovuto inventare strategie che permettessero di incontrarci, di trovare punti di contatto. (...) Fino ad oggi avevo sempre avuto la fortuna di poter scegliere gli interpreti o di lavorare con colleghi che già conoscevo e quindi con modalità affini alle mie. Durante questo lavoro in Biennale, invece, mi sono trovata ad avere a che fare con danzatori che avevano una formazione molto diversa, e mi sono accorta che per lavorare con loro attingevo (...) a modalità differenti, che mi permettessero di partire da loro, non da me, e il mio ruolo in questo caso è stato quello di entrare in sintonia con la loro indole e le loro caratteristiche, cercando di far affiorare aspetti anche non immediatamente evidenti, o al contrario di valorizzarne e renderne ancor più efficaci altri da cui non potevo prescindere, così da poter costruire su di loro delle immagini e dei pezzi forti, credibili. (...) La sfida perciò è stata quella di comprendere la persona che avevo davanti, capire cosa poterle chiedere e come valorizzare il suo grande potenziale, anziché soffermarmi a pensare se avesse o meno le capacità che servivano a me, su un mio progetto a priori. È un modo di fare coreografia completamente diverso, quasi una rivoluzione copernicana, ma più efficace, perché in tempi più brevi ti permette di sfruttare un potenziale enorme, e di utilizzare come ingredienti preziosi cose che che altrimenti sarebbero zavorra, e potrebbero facilmente impedirti di raggiungere il risultato che cerchi.
D: Insegnare, danzare, improvvisare: cosa intendi per sguardo esterno?
R: Io ho sempre affiancato all’attività di performer e coreografa quella di insegnante. Il problema, quando insegni, è che devi capire chi hai davanti, e da lì partire per liberarne il potenziale – altrimenti rischi di bloccare e inibire le persone, che anziché fiorire si chiudono. Quando studiavo mi è successo spesso di incontrare persone che nelle lezioni di danza erano impacciate e molto rigide, mentre in discoteca o alle feste rivelavano una fluidità e un senso del ritmo invidiabile – qualcosa non stava funzionando, mi dicevo, nel metodo di insegnamento.
Negli anni per me insegnare è stato sempre di più cercare un modo per lavorare su delle forme senza che ciò implicasse il dover ‘correggere’ (una parola dalle implicazioni complesse) la persona che era portatrice di quella forma, cioè trovare un’apertura, la possibilità di un lavoro anche formale che però non coincidesse con una mortificazione o una gratificazione eccessiva (che sfocia facilmente nel compiacimento) dell’essere umano che dentro quella forma stava crescendo e stava piano piano scoprendo delle cose. Per fare questo c’è bisogno prima di tutto di riuscire a creare un “ambiente buono“, non nel senso moralistico ovviamente, ma nel senso di un ambiente non giudicante, dove non si promuova – neppure in, e tra, chi partecipa - l’attitudine alla lode o al biasimo, cosa che invece lo studio tradizionale, ‘tecnico’ della danza, per forza di cose, porta con sé. Se l’insegnante dice cosa è giusto e cosa è sbagliato, come il piede o la gamba vanno tenuti, cosa bisogna o non bisogna fare, immediatamente si entra nell’ottica di uno sguardo esterno che dirà se quel movimento è lecito o meno: quello sguardo è un faux-amis per il danzatore, e da esso è estremamente difficile emanciparsi. (...)
D. Cos'è l’improvvisazione nella danza?
R. Non è agevole per me pensare di spiegare davvero cosa sia l’improvvisazione nella danza; non so se ne sono capace. Diciamo che ci provo, ma per ogni cosa che dirò ci sarebbero mille postille da aggiungere… anche perché non c’è un solo modo di improvvisare, ma infiniti – ma è vero che non tutto è ‘improvvisazione’ nel senso in cui la si intende, la si studia e la si pratica quando si danza.
L’improvvisazione nella danza viene spesso e a torto confusa con il ‘libero movimento’; in realtà improvvisare, in un senso estremamente generale, significa piuttosto ‘stare nella relazione’, che è come minimo triplice, ma che potenzialmente è infinita. Entrano in gioco la relazione del performer con se stesso, quella del performer con l’altro o gli altri performer che si muovono insieme a lui e quella del performer con il pubblico o con chiunque guardi dall’esterno (se c’è); a questo si aggiungono poi la musica (o il silenzio, i rumori, le voci…), il tempo, lo spazio (l’ambiente in cui ti muovi, dalla percezione più astratta e soggettiva a cose estremamente concrete, come su che tipo di pavimento stai danzando, o - se sei all’aperto - cosa ti circonda, e cosa ti sovrasta…), la luce, gli odori, gli oggetti che hai attorno, o addosso, o che cosa puoi utilizzare, a cosa ti puoi appoggiare etc. (...) Improvvisare significa non semplicemente agire, bensì stare in ascolto e quindi re/agire ad una serie di stimoli che si sono percepiti. È necessario un momento iniziale di grande apertura e di predisposizione ad accogliere ciò che ci circonda, per sentire cosa ogni input fa risuonare internamente.
A volte capita di non percepire immediatamente una sensazione a cui reagire, e in quei momenti la grande fatica è quella di rimanere in ascolto e aspettare, perché se ci si ‘lancia’ in anticipo si finisce per muoversi alla cieca e senza una logica, magari rompendo o disturbando il lavoro di altri. È importante invece darsi tempo e rimanere ricettivi, riconoscere le sensazioni e con esse le nostre emozioni e imparare a giocarci, perché portano nel corpo un mare di movimento e di idee su cui lavorare.
A quel punto in ogni performer inizia la schizofrenia!: c’è una parte che risponde e gioca con l’input percepito e un’altra parte che dirige il gioco, osservandolo dall’esterno non per giudicarlo, ma per governarlo; in tutto questo lavorìo interno ed esterno infatti non c’è più spazio per il giudizio, né tempo per chiedersi se quel che si sta facendo sia giusto o sbagliato, bello o brutto - semplicemente si ascolta, si cerca e si ricerca attraverso il movimento, si risponde, si dosa… o ci si apre di nuovo e di più all’ascolto. È insomma un insieme di ascolto, ricerca e scoperta continua, che nella mia esperienza non ha un andamento lineare ma procede come per pulsazioni. (...)
D: Improvvisazione e coreografia: talento, esperienza o mestiere?
R: Nella fase iniziale di una creazione coreografica l’improvvisazione può essere uno strumento prezioso per la raccolta del materiale e oggi i coreografi ricorrono sempre più spesso all’improvvisazione per questo. In questa prima fase gioca molto il talento dei performer, che permetterà di interpretare in modo creativo e interessante le indicazioni del coreografo. Il talento nell’improvvisazione assomiglia per certi versi al talento ‘fisico’ di alcuni virtuosi della danza: è un altro piano su cui avere apertura, ritmo o fluidità naturali aiuta, per cui può accadere (e anzi accade di frequente) che a una persona che ha poca esperienza nella danza, o non ne ha affatto, risulti più facile ed immediato improvvisare rispetto a un professionista della danza accademica ad esempio, anche per quel famoso problema di fare i conti con inibizioni, paure da giudizio e poca libertà rispetto alle forme precostituite, che i ballerini soffrono più degli altri.
La seconda fase, invece, è più legata all’esperienza, al mestiere e al talento del coreografo: consiste nello scegliere i momenti più interessanti e cucirli assieme, componendo/costruendo una struttura dentro la quale i performer riescano a ritrovare non soltanto le forme, ma anche le sensazioni e le emozioni che in precedenza avevano prodotto quelle forme. Per questo non è affatto vero che lavorando a partire dalle improvvisazioni il lavoro del coreografo si semplifica – semplicemente cambia, richiede un’abilità differente rispetto a quella ad esempio di colui che compone delle interessanti sequenze di movimento. Il coreografo impara a riconoscere le sensazioni, gli ‘stati’ più interessanti, e riesce a selezionarli e a comporli in una struttura organica che non solo abbia un suo senso, ma che permetta ai performer di tornare ogni volta a ritrovare quello stato iniziale. La vera abilità risiede proprio nella capacità di creare una fraseologia di movimento, di ricostruire un danzato che permetta di ritrovare al suo interno tutte le sensazioni che avevano suscitato il movimento iniziale. Ricordo che, in questo senso, durante un seminario Giorgio Rossi diede una definizione bellissima di coreografia: la descrisse come “l’arte di costruire un destino”. (...)
D: Come influisce nel lavoro l'attività con i più piccoli?
R: Tutto questo con i bambini è più semplice: la percezione immediata e la capacità di ascolto di sè e del mondo che serve all’improvvisazione ce l’hanno già: il difficile è non sottrargliele! Quando lavoro con i bambini il problema più grosso è spiegare ai genitori che la danza creativa che propongo ai più piccoli non è una perdita di tempo o un rallentamento rispetto allo studio tecnico: non proporre delle forme da copiare, ma chiedere a loro di trovarne e inventarne di proprie non solo è ‘meglio’ in generale per un bimbo in età pre-scolare, ma soprattutto risulterà utile proprio se quei bambini vorranno diventare danzatori, perché quando da adulti inizieranno a fare audizioni con coreografi che chiederanno loro di improvvisare, o anche solo di esprimere se stessi, se per anni hanno soltanto copiato forme e movimenti alla sbarra o in centro alla sala non sapranno da dove cominciare.
Quando si è piccoli è invece tutto molto immediato: i bambini sanno ballare il giallo o il blu e, anzi, per loro è difficile uscire da quella prospettiva. Ad esempio, nel secondo semestre dello scorso anno, all’interno di un laboratorio di danza creativa per bambini dai 4 ai 6 anni, ho utilizzato la fiaba de “Il principe ranocchio“ per lavorare sullo spazio: così ho disegnato per terra il laghetto e loro sapevano che passando quel confine si sarebbero trasformati in ranocchie: potevano muoversi come tali a loro piacimento, cercando pian piano di ricordare i propri gesti per poi saperli riproporre. Ad un certo punto un gruppetto di loro si è posizionato in un angolino della sala, dicendo che quella era la tana in cui le ranocchie si riposano; anche se nessuno l’aveva insegnato loro, istintivamente avevano sentito, riconosciuto che lo spazio può avere valenze diverse, che l’angolo di una stanza è diverso dal centro della stessa, poiché essendo un posto riparato e sicuro può essere associato ad una tana. Ciò dimostra che per i bambini molti aspetti del linguaggio della danza, come la lettura dello spazio, sono immediate... capacità e sensibilità che invece gli adulti spesso perdono lungo la strada, e hanno bisogno di ri-conoscere attraverso lo studio, l’ascolto e l’osservazione attenta di sé.
D: Quando è avvenuto l'incontro con la contact improvisation e cos'ha portato?
R: Anch’io, che ho avuto una formazione di danza moderna tradizionale (tecniche Horton, Limòn, Graham) e successivamente anche accademica (quella che chiamiamo 'danza classica'), ho ricominciato a “sentire” veramente con grande fatica e solo in seguito, soprattutto dopo aver approcciato la contact improvisation. È stata una vera e propria rivoluzione, perché stravolge il tradizionale approccio alla danza: un ballerino può passare la vita intera a cercare di compiere movimenti perfetti e armonici, mantenendo il massimo controllo su di sé e su ogni piccola parte del proprio corpo, in modo da poter eseguire passaggi anche molto complicati senza mai cadere; in una jam session di contact improvisation, invece, questo controllo viene meno, sostituito da fiducia e ascolto verso se stessi e verso la persona con cui si sta danzando, e dall’accettazione del rischio di errore e di caduta.
Nel momento in cui due corpi trovano un punto di contatto e convergono verso un baricentro comune si mettono ‘a rischio’ entrambi, perché se uno dei due si sposta, l’altro cade; pertanto bisogna imparare a fidarsi, a rendersi responsabili, ma soprattutto imparare a cadere!, o piuttosto imparare come cadere per non morire, e che anzi la caduta può dar luogo a una nuova dinamica, energica e feconda. (...) Imparare a non stigmatizzare l’errore, ad accettarlo e a giocarci, permette di scoprire che dagli errori possono nascere cose nuove e interessanti - a volte possono scaturirne anche trovate geniali.
(...) E questa libertà cambia tutto.
D: Cos'è la release – technique?
R: La contact improvisation è prima di tutto una rivoluzione filosofica che ha cambiato il modo di pensare la danza; è sorta negli USA negli anni ’70, in concomitanza della tecnica release, che ha anch’essa ribaltato l‘attitudine, tipicamente occidentale, del dover necessariamente oltrepassare il limite per ottenere dei risultati, forzando e soffrendo (letteralmente… perché sacrificio e dolore sono monete correnti nella danza).
Mi è capitato, a tal proposito, un episodio significativo durante una lezione: avevo proposto a un gruppo di bambine di sette-otto anni dei piccoli esercizi di stretching, quando mi sono accorta che una di loro stava silenziosamente piangendo; ho pensato che fosse perché si stava annoiando o perché non le piaceva l’esercizio, invece la sua risposta mi ha freddato: “è solo che ho tanto male alle gambe!” Una reazione sana!, mi sono detta - perché dev’essere normale sentir così tanto dolore alle gambe da aver voglia di piangere?!
Ricordo che Susan Klein a New York una volta disse che “per danzare non è necessario soffrire come cani!”; né, aggiungo io, è buono per il corpo, che istintivamente si difende e così facendo si sottopone a una doppia usura. Sempre Susan Klein usava un’espressione che mi è rimasta molto cara: diceva che per allungare la muscolatura è sufficiente “mettersi al davanzale del dolore”, ovvero arrivare a sentire il limite, e semplicemente rimanere lì – senza fuggire, ma senza forzare. E infine usare il respiro per – lentamente – aiutare il corpo a rilassare. (...)
La tecnica release, anziché spingere forzosamente il corpo dove non riesce ad arrivare, disinnesca la mina della risposta muscolare, che è naturale, e utile, e attraverso il respiro e il rilassamento libera spazi interni che si traducono in apertura e allungamento. (...) La strada per imparare a riconoscere e ad entrare in relazione con il proprio corpo, e ancor più con quello di un altro, non è certo immediata, e ci costringe ad aprirci alla percezione, a tornare in qualche modo dove sono i bambini - questo cambia tutto.
D: Perché la danza?
R: Quando si danza per me il punto non è che stile si segue, ma perché si va in scena. Se lo si fa non per dimostrare la propria bravura (che non ha nulla a che fare né con la danza né con l’arte), ma per esprimere e condividere qualcosa con il pubblico, il movimento può diventare uno strumento attraverso il quale chi guarda non percepirà solo l’emozione di chi sta danzando, ma attraverso di essa sentirà la propria, ed entrerà perciò in contatto con se stesso – e questa è la magia dell’arte.
(...) Quando il performer riesce a trasformare il proprio sentire reale in movimento, in un movimento coerente con quel vissuto e con l’emozione che porta con sé, quell’emozione diviene ‘visibile’ e perciò condivisibile – non è più soltanto sua, perché attraverso di essa lo spettatore (parola antipatica, perché sembra portatrice di una certa passività) viene tirato in ballo, e anche le sue emozioni entrano in gioco: attraverso l’emozione espressa dal corpo del performer egli può percepire la propria. Il performer diventa una specie di cassa di risonanza di sensazioni comuni, uno strumento attraverso cui le persone sentono e ritrovano sé stesse. Questo è possibile perché, come diceva Pina Bausch (sempre lei!), quel che si esprime è qualcosa di “estremamente intimo, ma nient’affatto privato”: sono stati d’animo e sensazioni che accomunano tutti gli esseri umani, e non c’è altro modo per portare altri in quei territori, se non averli prima riconosciuti ed esplorati personalmente.
Quando si vive un’emozione, anche molto complessa, una che per descriverla a parole non basterebbe un libro intero!, e il corpo la riconosce e capisce come ritrovarla e darle forma, chi guarda la recepisce immediatamente, la sente da corpo a corpo, da pancia a pancia; le reazioni possono essere diverse, egli può accoglierla o al contrario distaccarsene perché, magari, infastidito o turbato – ma il ‘contagio’ è già avvenuto. (...)
La poetessa Chandra Livia Candiani dice che c’è un luogo dentro di noi in cui la poesia alberga – e tutto è già lì: il segreto sta nel trovare, nel riconoscere quel posto. È una strada lunga e difficile, ma è possibile esprimere, tradurre in parole o in movimento, quel che vive e si muove laggiù.
D: ‘Produrre’ arte
R: Quanto in questo processo di ricerca e produzione intervenga o aiuti il ‘mestiere’ dipende da persona a persona, ma in ogni caso non si tratta di un passaggio semplice perché non ci sono regole precise per farlo e non ci sono ricette che garantiscano di ottenere sempre un buon risultato. Entrano in gioco molti elementi, le qualità personali (talento, spirito di osservazione, creatività, ….), fortuna, preoccupazioni estetiche e stilistiche; e in più non è detto che la stessa cosa funzioni sempre allo stesso modo, perché passando il tempo cambia la persona che fa quella cosa, e cambiano le condizioni...
Anche guardando ai mostri sacri della danza, non tutti gli spettacoli di Bausch, Cunningham o Forsythe possiedono potenza espressiva in egual misura. Non è come a scuola, dove sapendo come e quali libri studiare è certo che almeno la sufficienza la si raggiunge. Nella creazione è diverso: col tempo si impara a non sfracellarsi al suolo!, ma non è mai solo il mestiere che ti permette di creare l’Opera d’Arte.
Il lavoro veramente forte, che muove chi lo fa e chi lo guarda, non è una cosa facile da trovarsi: nonostante si faccia tutto il possibile e si ricerchi incessantemente dentro e fuori di sé, non sempre lo si riesce a creare o scovare. A volte questo può essere scoraggiante, capita di non riuscire a produrre qualcosa che davvero ci soddisfi, o di girare per festival e rassegne senza vedere qualcosa di veramente significativo, e questo porta a volte a domandarsi che senso abbia fare ancora questo mestiere. Però, nel momento in cui s’incappa in qualcosa di veramente forte, lo si riconosce immediatamente ed è sufficiente a ripagare tutto lo scoramento e la fatica: é raro, ma quando capita ha una forza pazzesca. Quando succede è come un regalo divino. (...)
D: Come vivi la questione dell’identità artistica?
R: Questo del ‘segno d’autore’ è un po’ il mio tallone d’Achille. Io ho avuto una formazione molto composita, non ho seguito un percorso lineare, tradizionale, e, negli ultimi anni, mi sono accorta che questo, nel bene e nel male, incide molto sulle mie creazioni. A tutt’oggi io non ho, né dal punto di vista estetico né dal punto di vista del processo compositivo, dei temi, delle modalità di lavoro o dei principi che mi soddisfino completamente e che valgano sempre, da uno spettacolo all’altro: a seconda del lavoro, parto e mi muovo in modo diverso, con modalità di ricerca ma anche una veste estetica e un gusto per la messa in scena anche molto differenti e distanti tra loro. Ad esempio, il lavoro per C.C. è completamente diverso da quello che ho fatto per l’inaugurazione della mostra su Carlo Scarpa o dal lavoro che ho presentato al Premio Giovane Danza D’autore, così come da altri precedenti. Forse è solo troppo presto – in ogni caso non avere artisticamente un’identità precisa, in un contesto in cui il circuiti richiedono una cifra stilistica identificabile, da un lato può essere penalizzante, ma dall’altro invece è una grande ricchezza: in questo modo si ha la capacità di adattarsi alle situazioni più diverse, di entrare in relazione più facilmente con il contesto in cui ci si trova, e di scoprire aspetti sempre nuovi di sé – è come se fossi sempre in viaggio. Ho scoperto che mi diverte moltissimo mettermi in gioco in situazioni in cui ci siano dei paletti precisi da dover rispettare: fino a qualche anno fa ero molto spaventata dai ‘compromessi artistici’, avevo l’idea fissa che dovevo ascoltarmi ed esprimermi e rimanere sempre fedele ‘a me stessa’… ma era una stupidaggine, in realtà non mi sentivo, facevo una gran fatica, e quando ho cominciato a capire chi ero, cosa volevo, cosa provavo nelle varie situazioni, mi sono resa conto che il compromesso artistico non esiste. (...)
La questione etica è differente: riguarda ad esempio il contenuto di ciò che porto in scena, o più in generale il condividere l’azione o le politiche del committente per cui creo, o anche le condizioni di chi lavora con me, ma sono questioni che di solito entrano in gioco al momento di decidere se accettare o meno quel lavoro. Su questo vedo che sono più rigida.
D: Il ‘problema’ del pubblico: come si potrebbe sostenere la danza contemporanea?
R: La danza contemporanea non è seguita da folle oceaniche di pubblico, in parte perché forse in questi anni l’offerta si è orientata verso un certo tipo di estetiche e di poetiche forse un po’ troppo d’élite, ma principalmente perché non vengono forniti gli strumenti per comprenderne il linguaggio, cosa di cui mi sono resa conto, tra l’altro, portando gli spettacoli nelle scuole. Ad esempio, con Tra cielo e brughiera, il lavoro dedicato a Etty Hillesum che è andato in scena ormai in decine di Comuni e scuole in occasione della Giornata della Memoria, ad un certo punto mi sono accorta che era necessario fare un pre-spettacolo, una sorta di prologo in cui fornire ai ragazzi qualche minimo strumento per poter ricevere la coreografia: tendevano ad osservare e a cercare di tradurre ‘movimento per movimento’, come se si trattasse di qualcosa di mimato, una sorta di alfabeto muto!, e finivano per domandarmi perché avessi mosso il braccio o il piede in quel determinato modo; così facendo non coglievano il significato globale e perdevano completamente il percorso emotivo.
Così ho cominciato a proporre loro una sorta di gioco, in cui li stimolavo a leggere il linguaggio del corpo (il mio e il loro) in situazioni più vicine al loro quotidiano, poiché il movimento non è altro che la traduzione di uno stato, la risposta a una sensazione o a un’emozione che in quel momento ha invaso il corpo. (...) Siamo tanto abituati a decodificare il linguaggio del corpo a livello subliminale nella nostra vita (come ci insegnano i consulenti d’immagine dei politici), quanto poi invece sul palcoscenico, alla tv o al cinema siamo viziati da forme di narrazione sempre estremamente didascaliche, lineari e spesso (quasi sempre, per la verità) mediate dalla parola, perciò la nostra abilità nel cogliere una comunicazione differente, non verbale, e la nostra capacità di leggere il linguaggio del corpo, quella stessa che dicevamo i bambini vivono così presente, soffre di una specie di analfabetismo di ritorno. (...)
Pina Bausch diceva che allo spettatore della danza contemporanea viene richiesto un grande coraggio, perché viene lasciato solo con le sue emozioni senza che nessuno gli dica cosa farne, senza che ci sia un giusto o uno sbagliato; e questo è un discorso che si può estendere a tutto il contemporaneo, anche alla musica, all’arte. Spesso non abbiamo gli strumenti, ma soprattutto non siamo più abituati a restare soli, ad ascoltarci e a fidarci di quello che sentiamo, che può essere diverso da ciò che prova la persona seduta a fianco a noi, ma non per questo è meno vero o ha minore dignità.
(...) Sensibilità e apertura non possono più essere date per scontate: quando un coreografo, un‘artista in generale, presenta la propria creazione, non può presupporre implicitamente che dall’altra parte ci sia qualcuno pronto e in grado di accoglierla, perché generalmente si è persa l’abitudine alla ricezione a all‘ascolto profondo, e la capacità di mettersi in gioco in prima persona si è come assopita davanti al video. C’è bisogno di risvegliarla, per cui il lavoro, soprattutto in ambito formativo (che siano i laboratori di danza creativa con i bambini, gli incontri di improvvisazione con i danzatori di professione o i laboratori con adulti e anziani) fondamentalmente è un ricordare, nonostante gli esercizi o le forme, la dignità e il diritto di cittadinanza delle sensazioni percepite, che sono una cosa preziosissima: imparare a sentirsi, ad aprirsi ed essere ricettivi è la base per poter esprimere sé stessi e per poter così comprendere e recepire l’espressione altrui.